BRANO DEL LIBRO “IL PARASSITA”
DI DINA COLLACCHIONI
…”Sentivamo un amore profondo verso la natura, in tutte le sue espressioni. Eravamo cresciuti in grembo alla Madre Terra, lei ci nutriva, ci sfamava, ci dissetava e riscaldava. Ci infondeva l’amore, ci colmava di energia. Gli animali erano al nostro servizio, li guardavamo negli occhi, fisici o spirituali, prima di ucciderli. Le nostre penne in capo, servivano per canalizzare l’energia e ad ogni ego sconfitto, ne aggiungevamo una. Ogni animale aveva uno spirito ed era il nostro alleato. Imparavamo tutto, attraverso gli insegnamenti che ci forniva, incontrandoci nei mondi paralleli. La natura aveva rispetto di noi, ci ubbidiva, se la domanda che le facevamo era formulata nell’interesse di tutta la comunità. Non ci hanno sconfitti, mai. Siamo ancora qui, portiamo i nostri messaggi. Ci siamo sacrificati per il risveglio dell’uomo, come Cristo. Avevamo un’anima collettiva, decidevamo assieme ogni passo. Ascoltavamo il cuore della terra ed era meraviglioso. Al momento di lasciare il corpo, ci allontanavamo: era un rituale di alta sacralità: dovevamo ringraziarlo, salutarlo, onorarlo. La saggezza non era prerogativa degli anziani, ma di tutti coloro che lavoravano su se stessi. Manitù era un mantra, il verbo, la voce. Pronunciavamo questa parola con devozione, era dentro e fuori, respirava in noi e attorno a noi.
Ero uno stregone, sapevo succhiare i demoni dai miei fratelli, viaggiavo fuori dal corpo, per imparare. Nei sogni incontravo i miei antenati, di cui ero il frutto, il mio corpo era mio quanto loro. Le piante di magia mi cedevano l’anima ed agivo attraverso il loro sapere. Nelle danze facevamo circolare la luce dentro di noi e le chiedevamo di dirigersi dove occorreva. Cedevamo il corpo a chiunque ne avesse bisogno per manifestarsi e nulla era male. Manitù decideva per noi. Lo amavamo, lo amiamo. Stiamo ancora parlando con chi ci ascolta. Il nostro sacrificio è stato l’insegnamento, ma voi siete ancora come allora, visi pallidi. Non onorate il silenzio, parlate con lingua biforcuta, siete doppi. Avete l’anima separata dal corpo. Avete occhi spenti e non temete la menzogna. Non sapete vedere oltre l’aspetto materiale e non onorate nessun totem. Non dovete superare nessuna prova di coraggio per sviluppare la volontà e la fede. Volete senza domandare, non sapete scagliare le frecce con l’arco, ma lo fate con la bocca e le vostre sono pericolose, perché voi potete uccidere la coscienza.
Non sentite il quieto sussurro degli alberi, perché li avete ingabbiati e ridotti al ruolo di schiavi. Noi li ascoltavamo, ogni fratello vivente era un tramite per connettersi con le sfere ed apprendere. Per questo potevamo udire la voce del vento, dei ruscelli e dei bisonti al galoppo. Voi vi sentite padroni, noi eravamo figli. Nel crepitio del fuoco ascoltavamo i lamenti dei morti, o le loro saggezze. Potevamo visitare l’oltretomba… i mondi sotterranei.
Avevamo rispetto. Senza compostezza e senza dignità, perdevamo la protezione. Era importante divenire guerrieri, ma il nostro sguardo stava rivolto all’interno. I nemici risiedevano lì, potevamo osservarli, ma solo dopo aver vinto la paura e l’orrore. Conoscevamo il nostro futuro, non tutti, ma molti di noi avevano occhi di aquila.
Sapevamo che per vivere correttamente, non dovevamo agire secondo i nostri desideri, ma ascoltare il volere di chi ci parlava da dentro. Manitù ci parlava. Nei canti, la voce si disperdeva lontana, attraversando le valli, sfiorando gli alberi, le pietre, la pelliccia degli animali, il torpore del suolo. Il suono creava un legame complice con i lupi, i corvi, gli orsi. Tutto si esprimeva come una preghiera, le parole non dovevano essere disperse, conoscevamo il veleno che esce dalla bocca per rientrare dal cuore, talvolta strappandolo dal petto. Le parole vane, restavano sospese attorno a noi e dovevamo fare dei riti per poterle dissolvere, disgregando la loro forza. Danzavamo tutta la notte… e quando gli spiriti arrivavano, lo stregone cedeva loro il corpo. Potevamo vederli ridere, muoversi, sentivamo i loro sussurri, la loro estasi. Ombre.
Il nostro amore era puro. L’unione dei corpi era una cerimonia, portava alla connessione con la Madre. Il respiro convulso faceva salire, risvegliando dio, e quel fuoco bruciava i nemici. L’estasi era costante, non c’era una fine o un inizio. L’uno si insinuava nel corpo dell’altro e perdeva la coscienza di se’. Incontaminati, i nostri sguardi erano come luna nella notte, come il canto del lupo, come il fruscio dei passi di una danza sacra. E danza sacra era l’unione, sapevamo di toccare un essere divino.
Io potevo trasformarmi in una tigre, o in un uccello.
Ho ritrovato mio fratello, è qui. Un patto di sangue ci aveva uniti e la morte di uno avrebbe portato via parte dell’altro. Era un amore così forte. Guardandoci, sentivamo il pulsare del sangue. Potevo percepire il suo corpo, perfetto, maestoso, come se fosse il mio. Stava eretto, le braccia incrociate, il suo sguardo rivolto sempre verso l’invisibile. Non sembrava calpestare il suolo, quando si muoveva. Forse faceva così per dare amore alla Terra. Non l’ho mai visto inquieto, né distratto. Né ho potuto vedere il terrore sui suoi occhi, o l’incertezza. Ed io ero come lui. Come un falco vagava sui cieli di ieri, ed oggi, ancora, vola.”